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Documenti - Letture e Recensioni

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Titolo: La filosofia in cucina        Autore:Francesca Rigotti

Edizioni: Il Mulino (Coll. Paperbacks)                              Pag.: 116 - Prezzo: € 11

 

La metafora proposta nell’introduzione del volume di Francesca Rigotti (……..) che raffigura spazialmente la contiguità funzionale di due locali, la cucina e lo studio, segnala lo svolgersi della ricerca di elementi di contaminazione fra attività domestica di manipolazione concreta di cibo e riflessione astratta intorno ai concetti della gastronomia.
Nello svolgersi dei capitoli risulta, infatti, centrale la relazione istituita tra cibo filosofico e naturale, composto di materiali culturali e di ingredienti culinari, che viene messo a confronto, osservando gli scambi di sensi dall’uno all’altro, per essere destinato al nutrimento dello spirito e, nello stesso tempo, all’alimentazione del corpo. Anche le parole sovrappongono il significato e mangiare e conoscere coincidono con la stessa funzione: non è forse vero che si usano espressioni comuni quali: fame di informazioni o sete di saperi? Ed a partire dalla Bibbia, con la citazione del peccato di Adamo ed Eva, gli esempi della letteratura alimentare sono numerosi: il riferimento corre a Dante che, nel Paradiso, lascia che il desiderio della conoscenza divina sia saziato con il pan de li angeli, fino a Pirandello che, in un passo de Il fu Mattia Pascal, interroga il protagonista bibliotecario sul fatto che la consumazione dei libri non appesantisce: chi se ne ciba e se ne mette in corpo vive tra le nuvole.
Del resto, ricorda l’autrice che il processo di civilizzazione è iniziato con la macellazione degli animali e si è, poi, sviluppato con l’introduzione del sale e delle spezie, mentre la gastronomia ha fatto discutere i filosofi sul posto occupato tra le arti nonostante la condanna di Platone, che avvicinava il retore e il cuoco, in quanto capaci soltanto di lusingare l’animo e il palato, piuttosto che cercare il vero bene dell’anima e del corpo.
Ma la cucina è un universo ordinato, dotato di regole e di ricette che non sono altro se non criteri regolativi che permettono la riproducibilità del piatto e la sua riconoscibilità, consentendo che l’assimilazione digestiva abbia, ancora prima, una corrispondenza nella comprensione consapevole degli ingredienti, delle modalità di produzione e dei luoghi in cui risultano ottenuti.
Sicché, ben riflette un famoso filosofo - come John Locke - a proposito delle differenze di principi, concetti e gusti diffusi e, cioè, i nostri intelletti non sono diversi dai nostri palati, inducendo modernamente a riflettere sulle necessità di soddisfare le preferenze dei consumatori con alimenti differenziati e di qualità e di contrastare, invece, i rischi di omologazione produttiva legati all’uso di tecnologie genetiche o artificiali.
Tanto più che, secondo la suggestiva ricostruzione dei testi condotta dall’Autrice, la lingua è sia organo del gusto che della parola e ciò che si deve evitare, così come si conviene, è tanto l’uso smodato di parole quanto l’esagerazione nell’assunzione dei cibi: ingordigia e loquacità sono entrambi inclinazioni del comportamento da cui rifuggire.
Nella tradizione, invero, conosciamo almeno cinque forme degli eccessi di gola: si può peccare, mangiando prima dei pasti o cibi costosi ovvero raffinati; troppo o con avidità, cosi ché la colpa della gola sia capace di intorpidire la limpidezza dell’intelletto. Ai nostri giorni potremmo, d’altra parte, aggiungere un altro peccato, vale a dire quello di mangiare schifezze, perché all’offesa alla propria salute si aggiunge, sul piano dell’interesse collettivo, il sostegno spesso inconsapevole ad un mercato che non rispetta le garanzie per un equo trattamento dei lavoratori, la gestione sostenibile delle risorse naturali e la salute di chi consuma.

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Titolo: Fondata sulla cultura Autore: Gustavo Zagrebelsky

Edizioni: Einaudi                                                                 Pag.: 120 - Prezzo: € 10

È facile immaginare che il saggio di Zagrebelsky (Fondata sulla cultura, Einaudi, pp.120, €10.00) presenti qualche difficoltà ad una prima e immediata lettura costringendo a tornare indietro e a soffermarsi su alcune considerazioni riservate al “posto della cultura” e alla “scala delle idee” che compongono la pratica del nostro vivere in comunità. Fatto sta che la necessità di ricomporre il sociale e di contrastare l’attuale frammentazione di stati, bisogni, aspettative e identità motiva l’interesse a ricostruire quelle connessioni – i leganti di un quadro d’insieme -  che definiscono il fondamento culturale della società.
Come può, allora, instaurarsi fiducia quando non ci si conosce in una cerchia allargata di persone: entra in gioco qualcosa di comune a tutti e che tutti riconoscono come tratto di appartenenza e di identità. Se un tempo era la religione a porsi come legame sociale e a disegnare l’appartenenza ad una comunità, ora è a rischio la capacità di rintracciare una forza di natura culturale in grado di tenere insieme e di coinvolgere dli individui in competizione politica ed economica.
Perché assolva la propria funzione la cultura deve essere libera, si ché occorre vigilare per rimuovere le insidie che derivano dal servizio a interessi di altra natura, dall’uso strumentale o dal conformismo. La sua libertà è coltivata dalla fiducia reciproca che è richiesta per prendere le decisioni in ambiti specialistici dove, chi non sa nulla deve potersi fidare di chi ha conoscenze e approda alla responsabilità di disegnare visioni d’insieme che riguardano tutti e gli interessi di tutti, perché “la nostra vista si è fatta acuta, acutissima, quanto ai particolari, ma siamo ciechi di fronte a ciò che ci dovrebbe tenere insieme, cioè a ciò che è generale e unificante” (p. 41).
Al tempo dei blog, twit, social forum, si fa presto a parlare di comunità e di adesione ad una trama di relazione che abbia sostanza di vita sociale: il fatto è che tutto appartiene all’istantaneità, sì che “si usa una parola – «comunità» – che viene da lontano, cioè da un mondo dove il principio era la durata dei legami esistenziali, e li si trapianta in un mondo dove il principio è l’istante” (p.46).
Il terreno in cui si sedimenta la cultura sono le idee, arricchimenti e apprendimenti soggettivi, che ci rendono capaci di visioni dell’esistenza e mescolandosi le une con le altre contribuiscono alla vita associata secondo una scala ordinata a seconda che esse servano per classificare, risolvere, comprendere, progettare o sognare.
L’ascolto di Campagna Amica, da parte dei cittadini consumatori, si spiega in questa selezione e ricomposizione di idee che non sono soltanto quelle volte a risolvere problemi tecnici e a progettare azioni, ma a riaccendere lo sguardo a ciò che è generale: fare agricoltura non si esaurisce nel compito di far bene e far cose buone ma a disegnare un modello di comunità che presti attenzione al lavoro, alla convivenza, all’ambiente, alla salute, secondo una prospettiva generale.
In fondo, come ricorda l’A. “coltura ha la stessa origine di cultura, riguardando il prendersi cura della terra e, insieme, delle condizioni insostituibili della vita collettiva.

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Titolo: Green Italy        Autore: Ermete Realacci

Edizioni: Chiarelettere (coll. Reverso) - Pag.: 336 - Prezzo: € 15

 

È una foto di gruppo dell’Italia che fa il suo mestiere, quella che Ermete Realacci scatta con GreenItaly (Ermete Realacci, ed. Chiarelettere, p. 336) fermandosi ad osservare da vicino modelli di impresa, mestieri e talenti personali che tracciano l’itinerario per vincere la sfida che ci attende fuori dal tunnel della crisi. Imprenditori non conosciuti con storie originali e di successo (dal sarto che cuce abiti a lord inglesi alla fabbrica che illumina i giorni del pellegrinaggio alla Mecca; dall’azienda che fabbrica ecopannelli a partire da materiali vegetali e plastici di scarto a quella di cestini con la plastica di tappi o di filati riciclati fino alle piastrelle antibatteriche) in una narrazione che alimenta l’orgoglio di chi, mettendo assieme intuizione e fantasia, abilità manuale e tecnologie, sapere e ricerca, è riuscito a investire in un percorso di crescita che parte dalle esperienze già in campo, dimostrando come la competitività dei prodotti italiani non sia ancora del tutto usurata.

Non è certo la curiosità a disegnare lo spaccato del più autentico Made in Italy, ma la visione complessiva di un disegno che l’autore descrive raffigurando il profilo di imprenditori efficienti, flessibili e creativi e il tratto di territori che ci restituiscono un’idea di futuro concreta. Per competere bisogna avere gli strumenti adatti ritrovando nell’Italia migliore le radici del nostro futuro. Sul nuovo terreno della concorrenza globale e della produzione immateriale quel drappello di imprese ha, infatti, agganciato il legame della tradizione con l’innovazione, la logica di calcolo della convenienza individuale al fabbisogno di solidarietà senza cercare subfornitori altrove e investendo, invece, nel sapere accumulato nei luoghi.

Neppure troviamo indulgenza alla nostalgia verso un mondo che scivola all’indietro e arresta il tracciato della modernizzazione perché la scelta è di mettere a fuoco la rigenerazione dei vantaggi competitivi ereditati e replicati proprio come nella parabola dei talenti: chi li sotterra perde la propria dignità, a chi li moltiplica è offerta l’opportunità di successo.

Da questo punto di vista, i casi non sono studiati in quanto esperienze individuali, ma come il profilo più essenziale della dinamica del nostro sistema economico e produttivo. L’obiettivo dell’autore è quello di ripartire dalle risorse di cui il Paese è dotato e che fanno la differenza nei sistemi territoriali e nelle funzioni produttive. C’è tanta voglia di lavorare per non tornare indietro e superare con fiducia i segnali di stanchezza, oggi, scambiati da qualcuno per declino: “perché questo nuovo paradigma che riporta l’economia al dialogo con l’etica e la responsabilità e che ruota attorno ai temi ambientali, non è un’idea futuribile: è già qui e ha il volto della green economy” (pag. 17).

Realacci dedica spazio anche al progetto dell’agricoltura che vogliamo. Del resto, le contaminazioni con Coldiretti non sono state poche in questi anni: dal Km 0 all’esportazione dei territori; dal sostegno alle energie rinnovabili da filiera corta alla lotta contro l’aggressione al territorio agricolo; dal presidio delle zone rurali e dei piccoli comuni alla qualità e alle eccellenze del patrimonio agroalimentare. Certo, “alla nostra meta-economia manca una cornice, un disegno che unisca tutti i punti  in una visione comune e condivisa. All’Italia manca un sogno. Se lasciamo che il futuro si riduca ad essere solo il luogo di sacrifici e privazioni allora è meglio gettare la spugna” (pag. 44), ma l’A. ci convince perché ce la possiamo fare: se mettiamo alle nostre spalle la cattiva piaga dello sviluppo fordista e con fiducia cerchiamo, nella nostra cassetta degli attrezzi, le idee e le risorse per riposizionarci, qualificando la produzione agli occhi di consumatori più informati e consapevoli. Perché produrre significa anche organizzare uno spazio di relazioni e di regole al di là del cancello della fabbrica e più oltre in una cornice territoriale, includendo i diritti non solo dei consumatori quanto anche dei lavoratori, per scambiare conoscenze, gestire insieme i rischi e dividere i costi, innescare lo sviluppo e accettare la dipendenza l’uno dell’altro con un forte legame con la comunità e un’effettiva attenzione al nostro ambiente di vita.

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Titolo: Animalia    Autore: Ivano Dionigi

Edizioni: BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2011   Pag.: 155    Prezzo: € 9,90 

UOMINI E ANIMALI: UNA RICERCA SULLA GERARCHIA DEI VALORI.

Animalia è un interessante volume a cura di Ivano Dionigi che raccoglie una serie di saggi di intellettuali e scienziati del nostro tempo chiamati a confrontarsi con testi greci, latini e giudaico-cristiani intorno al tema delle relazioni tra uomini e animali. In effetti, anche l’approdo delle più recenti tesi evoluzionistiche non esclude di interrogarsi sul posto dell’uomo nella natura, facendo leva sull’insegnamento di autori dell’antichità le cui opere sono selezionate e riprodotte in una ricca appendice. Certo è che, rispetto alla natura in genere, non possiamo più considerarci padroni assoluti perché all’uomo non è dato un potere oppressivo e arbitrario: progresso e sviluppo trovano la loro possibilità e legittimazione “in una logica di alleanza cosmica che gli uomini sono chiamati a instaurare responsabilmente e ad intrattenere con tutti i viventi sulla terra” (28). Nella bella immagine di Enzo Bianchi l’uomo per vivere ha bisogno di una comunità che comprende anche gli animali e questo legame è destinato ad incidere sui sistemi di regolazione dei comportamenti aventi ad oggetto tutti gli esseri animati: l’abitare il mondo, che non è solo, per così dire, uno specchio a misura d’uomo.
Il paradigma dell’antropocentrismo contenuto in un pensiero di Aristotele (non vi può essere amicizia né legame di giustizia vero verso le cose prive di anima; e neppure vi sono verso un cavallo e un bue, né verso uno schiavo in quanto schiavo: non vi è, infatti, nulla in comune) va rivisitato e storicamente confrontato con la dimensione più recente della interdipendenza di tutti gli organismi e con la necessità di avere una visione globale della natura e della sua multiforme variabilità. In realtà, se l’anima vegetativa appartiene alle piante, quella sensitiva agli animali e solo all’uomo appartiene l’anima razionale, ancora, Tommaso D’Aquino giustificava, senza esitazioni, l’uccisione di animali a fini alimentari in una relazione di gerarchia fra le forme di vita inferiori ordinate alla sopravvivenza di quelle superiori. Un più radicale cambiamento si compie, invece, a partire dal secolo dei lumi, quando J. Bentham pronuncia un’appassionante invocazione a favore degli animali (“la domanda non è: possono ragionare? o possono parlare?, bensì: possono soffrire”) e, nell’apposita voce dell’enciclopedia Voltaire scrive: “che meschinità, che banalità aver detto che le bestie sono macchine prive di conoscenza e di sentimento”.
A questo punto, il passo con le forme più radicali di umanizzazione degli animali - diversamente dai bestiari medioevali capaci di rappresentazioni metaforiche dei comportamenti animali: ad esempio dell’astuzia (la volpe), della pigrizia (il ghiro) della forza (il toro) etc. - sfocia, però, in una discriminazione alla rovescia che finisce per penalizzare l’attenzione ai valori umani. Tanto che, avverte Danilo Mainardi, gli animali che comunemente conosciamo sono quelli del cinema, ben diversi da quelli che vivono in natura. Sono veri e propri divi - dallo scimpanzé Cita al pesciolino Nemo - dotati di un linguaggio e di un modo di ragionare umano e spesso infantile; ma “se, per assurdo, questi animali cinematografici dovessero uscire dallo schermo e tornare a vivere nel mondo reale, certo è che le nuove caratteristiche acquisite li renderebbero inadeguati per la sopravvivenza” (91). Questa circostanza rende ormai problematico anche il dibattito sulle scelte alimentari e richiede di affrontare con più responsabile attenzione il nodo dell’allevamento: lontani da quell’ignoranza, a cui appena si è fatto cenno, ben sapendo che il difficile lavoro dell’allevatore deve promuovere il benessere degli animali, le corrette pratiche e il rispetto della vita lungo l’intero ciclo biologico. Mettendo da parte ogni ipocrisia il libro ci aiuta, allora, a capire le scelte legate alla dieta vegetariana ed a regolare il dibattito in corso sul perché la produzione di carne non dovrebbe riconoscersi eticamente sostenibile quando, invece, l’esperienza autentica del dialogo con gli stessi allevatori che incontriamo nelle botteghe e nei mercati di vendita diretta pone al centro dell’attenzione il benessere degli animali e le ragioni della sicurezza alimentare: sono loro che ogni giorno con la sfera dei gesti si rendono degni dei doni della terra preservando con la continuità del lavoro zone spesso disagevoli e paesaggi incontaminati.

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Titolo: La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene
Autore: Pellegrino Artusi a cura di Alberto Capatti

Edizioni: Radici BUR - Prezzo:  € 15

ARTUSI: IL FEDERALISMO  A TAVOLA

Nell’anno di celebrazione non può tornare indifferente la ri-lettura del libro di cucina dell’Italia unita pubblicato nel 1891 da Pellegrino Artusi La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, disponibile in una pregevole edizione della Biblioteca Universale Rizzoli (radiciBUR, novembre 2010).
In effetti, già Prezzolini aveva accostato il ricettario al romanzo storico manzoniano e al più celebre racconto italiano per l’infanzia – il Pinocchio di Collodi – quale contributo efficace nel campo della diffusione della lingua italiana. La scienza in cucina, che si sviluppa attraverso una fitta trama di corrispondenze tra l’autore e i lettori è, dunque, il testo fondativo della cucina italiana, presentando alla fine della quindicesima edizione (1911) ben settecentonovanta ricette ben narrate e messe a disposizione di cuochi e cuoche per l’utilità di una cucina di casa: uno strumento per soddisfare l’appetito tanto dei golosi quanto dei deboli di stomaco e, comunque, per interpretare il desiderio di allestire una tavola in famiglia, ordinata e genuina, fatta con ingredienti del territorio. Scrive, in proposito, l’Artusi nella premessa alla prima edizione: “Se non si ha la pretesa di diventare un cuoco di baldacchino non credo sia necessario, per riuscire, di nascere con una cazzeruola in capo; basta la passione, molta attenzione e l’avvezzarsi precisi; poi scegliete sempre per materia prima roba della più fine, ché questa vi farà figurare”.
Artusi fa emergere, del resto, la vocazione localistica della nostra cucina, sebbene ne ricavi un modello unitario, contemplando la diversità delle abitudini alimentari che si precisano in base all’ambiente, al clima ed alle tradizioni produttive delle nostre campagne. L’impegno nella preparazione dei diversi piatti è sempre quello di evidenziarne le radici culturali e di realizzare un vero e proprio federalismo a tavola; così è per l’uso dei vari condimenti. “Ogni popolo usa per friggere quell’unto che si produce migliore nel proprio paese. In Toscana si dà la preferenza all’olio, in Lombardia al burro e nell’Emilia al lardo che vi si prepara eccellente” (ricetta 209).
Il successo de La scienza in cucina viene, perciò, testimoniato nella diffusione dell’opera – quando è ancora in vita l’Autore - in quanto capace di registrare le identità dei campanili che si erano venute configurando a partire dal medioevo, attraverso un fattore chiave nella trasmissione culturale: la rete delle città, che ha unito insieme realtà politiche differenti, rendendole omogenee sul piano culturale tramite una fitta circolazione di uomini, idee e, soprattutto, alimenti.
Certo, il modo di sfogliare il ricettario potrà, oggi, richiedere una maggiore attenzione salutistica o la necessità di ricombinare taluni ingredienti o di reinventare le tecniche di preparazione, ma senza dimenticare che solo se faremo la scelta di acquistare prodotti dell’industria alimentare, dagli snacks ai sandwiches, potremo ritenere inutile quell’approccio educativo al saper fare che la gamma delle ricette di Artusi ha ispirato di generazione in generazione. E, infine, ricordiamo la satira di Artusi che solo “il mondo ipocrita non vuol dare importanza al mangiare; ma poi non si fa festa, civile o religiosa, che non si distenda la tovaglia....”.

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Titolo: Il mestiere più antico del mondo  Autore: Antonio Leotti 

Edizioni: Fandango - Prezzo:  € 14 Pag.: 136 

Campagna e mercato tra sogno e realtà

Il mestiere più antico del mondo (Antonio Leotti, Fandango Ed., p. 136, € 14,00) è la memoria-racconto in cui l’A., scrivendo di sé, va alla ricerca della vita passata attraverso ricordi ed avvenimenti che strutturano una più ampia narrazione della vita in campagna con il desiderio di mettere in luce la realtà del lavoro agricolo senza l’illusione dello sguardo di chi si limita a riferirsi al senso comune, ma pretendendo di coglierne l’essenza e le qualità.

Del resto, tutto il racconto si dipana su un doppio binario di lettura, in cui la visione di un ragazzo che studia in città e intrattiene relazioni borghesi è alterata dalla passione di ricercare la coerenza della sua esperienza rispetto alla vera identità rurale che lo lega alla proprietà di una fattoria in cui, crescendo, alimenta piaceri e desideri, scoprendo la schiettezza dei rapporti umani oltre che la bellezza dei luoghi.

Se la vita in città si rivelerà sempre più triste e densa di nostalgia, passeggiare in campagna e usare la parlata delle origini, stando insieme ad agricoltori esperti, abili in molteplici mansioni e capaci “di leggere un paesaggio come un libro aperto” (pag. 23) suscita nel ragazzo (“il signorino”) la volontà di modificare la propria condizione sociale e di conoscere fino in fondo il segreto  dei campi lavorati: “covava, sottoforma di senso di colpa, la curiosità e il rimpianto per non sapere dare un nome alle cose” (pag. 29).

L’evidenza fisica della scomparsa di un mondo - quello mezzadrile - che continuerà a risultare invisibile al ragazzo accompagna, passo dopo passo, la sua angoscia per la perdita di un oggetto d’amore: “la società correva, l’industria si ingigantiva, a stare in campagna si aveva l’impressione di rimanere fuori dalla vita, di perdere l’ultimo tram per il futuro” (pag. 40). A salvare dal dissesto la gestione della grande proprietà sono state, invece, le misure comunitarie di sostegno alla rendita a partire dalla messa a riposo dei terreni che pure avrebbero cambiato il disegno ordinato dei paesaggi. Del resto, il protagonista è socio dell’unione agricoltori e, al di là della finzione del romanzo, si coglie l’indirizzo sindacale di aver sfruttato gli aiuti comunitari per mimetizzare la perdita di una visione di futuro: “gli ideologi della convenienza” - nei ricordi autobiografici - tornano a sollevare la stessa risposta: “la tua [azienda] è troppo piccola, poco seminativa quindi pochi contributi legati alla PAC....ci voleva il latifondo” (pag. 65-66).

Dall’altra parte, “sotto la cenere delle autentiche preoccupazioni economiche e finanziarie, c’è un mondo di sentimenti accesi, di slanci giovanili, di sapienza misteriosa, di pazienza rivoluzionaria. Ma non lo davano a vedere”. È la cifra che descrive, ad avviso dell’A., i coltivatori diretti ed è proprio dall’osservazione del loro lavoro e del loro senso del dovere che nascono le idee per rimettere a posto le sorti dell’azienda con nuovi investimenti, aprendo alla multifunzionalità e certificando le produzioni con metodo biologico (“la mia associazione di categoria mi aveva sconsigliato”, pag. 112).

Anche di fronte alle difficoltà più recenti, dalla burocrazia alla speculazione dei prezzi, la forza di proseguire trae, del resto, impulso da quelle idee che l’A. intuisce appartenere ad un mondo a lui estraneo (“tornare indietro ai tempi in cui l’agricoltore andava una volta alla settimana al mercato ad offrire i suoi prodotti, lasciare che i prezzi si formino davvero sul fabbisogno, sulla domanda di una clientela locale”, pag. 135) senza, però, riuscire a tradurle nell’operatività di un progetto di mercato.

Non resta, allora, che consigliare quegli agricoltori che ancora non sono venuti a conoscenza dello straordinario progetto di Campagna Amica di tradurre il loro sogno in una realtà imprenditoriale magari sollecitati dalla lettura di questo romanzo.

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Titolo: Gola  Autore: Florent Queiller Edizioni: Dedalo  Prezzo:  € 22 Pag.: 224 

Peccatori e buongustai: vizi e virtù del mangiar bene


Oggi che le aspettative salutistiche e le prescrizioni nutrizionali tornano ad attualizzare il peccato di gola, mostrando chiunque non osservi le regole imposte da diete dimagranti come un potenziale attentatore contro il proprio corpo e la società, la lettura di Gola. Storia di un peccato capitale (Florent Quellier, Ed. Dedalo, p. 224, € 22,00) rivela tutto il suo interesse nel decolpevolizzare chi mangia attraverso un racconto che attraversa l’Europa a partire dall’età di mezzo, ricchissimo di citazioni letterarie, impreziosito di raffigurazioni ed allegorie e capace di proporre come icona la nuova legittimazione sociale del piacere a tavola in quanto sia legato al territorio ed alla sua dimensione identitaria oltre che alla cultura del moderno gourmet al termine di un serio apprendistato educativo.
In effetti, a partire dal Medioevo, quello della gola è un vizio capitale che si oppone al digiuno quale pratica ricercata in una società fortemente segnata dall’influenza religiosa: né è casuale che la rappresentazione iconografica dell’inferno sia caratterizzata da fuoco e fumo ispirandosi al mondo delle cucine. Ed è un peccato di ricchi e di potenti, che consiste nell’eccesso di vino e di vivande, nell’avidità e nell’intemperanza: tanto più biasimevole quando sia il clero ad essere protagonista delle voluttà del ventre.
Lo scontro confessionale che si consuma in Europa richiama anche l’ipocrisia della dieta di magro che la Chiesa cattolica impone nel periodo quaresimale denunciato, da parte della tradizione luterana, in ragione della diffusione di ricette prelibate e condite con ogni genere di delizie. Perennemente sconvolto da carestie e percorso dallo spettro della fame, il Medioevo è, del resto, al centro dell’utopia della cuccagna, quale terra d’abbondanza, contrada immaginaria dove è ignota l’idea stessa di fame e di fatica per accedere ad una felicità tutta terrena ancora una volta contro le costrizioni e le penitenze alimentari.
In ogni caso la Chiesa ha sempre riconosciuto che l’assunzione di cibo sia qualcosa di naturale e che la convivialità costituisca una forma essenziale di integrazione sociale: la condanna va soltanto al desiderio disordinato che degrada l’uomo al piano della bestialità. Ciò che segna il distacco dal modello anglosassone di cultura protestante, ancora oggi estranea alla rappresentazione della buona tavola come arte franco-italiana del buon vivere e occasione di ispirazione di arte, lettere e pittura. Nell’Europa settentrionale, scrive l’A. (p. 81) “la carne di maiale deve il suo successo non al sapore, ma alla plasticità, che permette al macellaio di prepararle in cubetti, in bastoncini, in salsicce rosse, in polpette... Poco importano, qui, le qualità organolettiche della carne, ciò che conta è la sua sostanza nutritiva, il suo apporto in proteine”.
È anche vero, però, al di là del possibile legame tra etica cattolica e piacere gastronomico, che l’Europa mediterranea sia decisamente più ricca di prodotti tipici e tradizionali e di diversità alimentari. Non c’è dubbio, pertanto, che l’attenzione per il mangiar bene sia legata alla sensibilità diffusa in Italia e in Francia a partire dal XVII secolo come dimostrano dissertazioni e trattati, libri di cucina e cronache gastronomiche, poiché “se le buone maniere a tavola si giudicano anche dal modo di esprimersi, il saper mangiare implica ugualmente l’arte di saper parlare delle qualità di un vino o di una pietanza e delle relative sensazioni gustative” (p. 112).
Inoltre, il ghiotto e, cioè, chi ama mangiar cose buone, allora come oggi “deve conoscere l’origine geografica delle derrate di qualità che consuma: burro di Trégor, cappone del Maine, fegato grasso di Strasburgo, vino di Champagne...” (p. 114).
Se l’obiettivo di mantenere delle generose rotondità appartiene ai segreti della bellezza delle dame d’alta corte o al culto popolare e rassicurante dei bimbi paffutelli fino agli esordi del novecento, l’ingordo privo della capacità di controllare i proprio istinti si trova sempre più ai margini di una società divisa in caste: “ai facoltosi esponenti della borghesia e della nobiltà la scelta delle vivande, ai poveri il sogno della sazietà” (p. 118).
È ad un giurista (Jean Anthelme Brillat Savarin) che si deve, però, il merito di aver decretato il successo del discorso gastronomico presentato come una scienza coltivata da buongustai educati alla fisiologia del gusto, basandosi su osservazioni e sperimentazioni, perché: “gli animali si nutrono, l’uomo mangia e solo l’uomo di spirito sa mangiare” (p. 155).
A questo punto è ormai aperta la riflessione sui nostri giorni, quando il cibo diventa spesso occasione di itinerari gastronomici, di percorsi educativi nelle fattorie didattiche e di piacevoli letture o conversazioni, in quanto è sempre l’alibi culturale che si presenta come moderno canone capace di soddisfare la gola.

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Titolo: Tauroetica Autore: Fernando Savater Edizioni: Laterza Prezzo:  € 14 Pag.: 111 

Quando è un filosofo a discutere sul comportamento da tenere verso gli animali in una cornice antica e, al tempo stesso, densa di significati simbolici e di suggestioni allegoriche, qual è la corrida, conviene sicuramente soffermarsi e valutare, più in generale, le ricadute della riflessione sugli usi diversi a cui gli animali sono destinati per i nostri bisogni di alimentazione, di compagnia o di divertimento.
Fernando Savater ha scritto Tauroetica (Ed. Laterza, p. 111, € 14,00) poco prima che il parlamento della Regione autonoma della Catalogna decretasse l’abolizione delle corride sull’onda di una montante sensibilità ecologica pro-animalista decisa a denunciare di fronte all’opinione pubblica la crudeltà del combattimento. L’A. dedica la sua iniziale riflessione partendo dalle posizioni etiche che si preoccupano maggiormente del benessere degli animali in una prospettiva di crescente idealizzazione e compassione. Il fatto è che abbiamo modificato proprio il concetto di animalità, assegnando a tutti gli esseri viventi la predisposizione ad avere interessi piuttosto che essere dotati di necessità ed istinti riconducibili all’imprinting evolutivo. Modificatasi la scala delle sensibilità si chiede, per ciò, di eliminare le cause di sofferenze capricciose e non necessarie patite dagli animali in quanto non siano supportate da benefici o utilità che tecnologie artificiali ci restituiscono sottoforma di alimenti, abiti e utensili vari. Ma non ha senso chiedersi se gli animali vogliono essere ciò che sono, costruendo per essi un apparato di norme dirette ad evitare ogni forma di trattamento ritenuto immorale, perché se è probabile che il toro non voglia combattere nell’arena alle stesse conclusioni si dovrebbe pervenire con riguardo alla gallina che depone le uova di cui la derubiamo o per il maiale che decisamente malvolentieri si presta a fornire prosciutti o per il cavallo chiamato faticosamente a galoppare o a trainare un carro.
L’A. scrive, in proposito: “non abbiamo più bisogno di imbrattarsi di sangue per mangiare pane e salame, basta andare al supermercato e comprare un sacchetto di plastica contenente delle fette confezionate sottovuoto” (pag. 47). E se frequentiamo meno circhi e zoo i nostri bambini non conoscono più da dove vengono il latte o le uova: gli unici animali selvatici che popolano l’immaginario infantile sono quelli dei documentari televisivi, come i dinosauri; mentre quelli domestici subiscono continuamente il nostro affetto invadente e tirannico.
Mano a mano che ci allontaniamo da un autentico coinvolgimento con la natura e con la realtà della vita in campagna diventa più flebile un’autentica familiarità con gli animali. È così che uno spettacolo come la corrida tramandato nella tradizione artistica e letteraria, finisce per diventare repellente, salvo, però, che “dovremo rassegnarci a dimenticare la melodia del gallo che canta o della mucca che muggisce. Anche i paesaggi non saranno più quelli di un tempo...” (p. 52).
Naturalmente ciò non elimina la serie dei doveri che noi abbiamo nei confronti degli animali e la condanna verso ogni forma di crudeltà che riflette la degradazione della nostra umanità. Non può, invece, essere menomata la sfera delle libertà di ciascuno e, comunque, come scrive l’A. non “fa parte dei compiti di un parlamento fissare modelli di comportamento etico per i suoi cittadini”, mentre “dovrebbe piuttosto creare un quadro legale all’interno del quale far convivere diverse sensibilità morali..” (p. 103-104).

 

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Titolo: Le comunità dell'energia Autore: Livio De Santoli Edizioni: Quodlibet Prezzo:  € 16,50  Pag.: 191 

 

 

La tesi del libro che voglio segnalare, in questa occasione, all’attenzione dei lettori (L. De Santoli, Le comunità dell’energia, ed. Quodlibet, 2011, 191 p., € 16,50) è sostanzialmente questa: quando la società civile risulta capace di farsi parte attiva e di contribuire al bene comune e dove le comunità sono forti e le persone responsabili, allora, risulta evidente la presenza di uno Stato più leggero nelle questioni gestionali e di un mercato meno influente a livello decisionale.
 Ma come rendere le comunità locali e la società civile strumenti in grado di supportare efficacemente un progetto di sviluppo partecipato?
 Secondo l’A. uno dei settori dove la decentralizzazione di poteri dallo Stato alla società intesa come gruppi di cittadini legati al proprio contesto e cultura di appartenenza resta più facilmente possibile è quello energetico ed ambientale.
 Il manifesto energetico propone, sul punto, piani fattibili, finanziabili ed efficienti dal punto di vista del risparmio e del ritorno d’investimento, quali: la creazione di una rete di nodi entro la quale si svolge la produzione, la distribuzione e il consumo di elettricità e calore, etc.
 Un’idea sovversiva, in quanto mira a rovesciare l’attuale modello autoritario (centralistico-gerarchico) di gestione delle risorse energetiche in nome di un’ampia federalizzazione delle risorse che consente anche una modifica socio-economica del mercato (qui si parla di grid-economy invece di green-economy). L’obiettivo è quello di promuovere una nuova responsabilità civile e la crescita d’una diffusa consapevolezza scientifica circa le conseguenze di scelte che non possono più essere delegate solo a una separatamente a tecnici.
 Ma i contenuti del libro non si appuntano solo sul tema energetico. Il capitolo iniziale, ad esempio, è dedicato agli orti urbani e, dunque, all’idea di nuova progettazione delle città attraverso una modifica delle modalità di accesso al cibo e di conoscenza delle stagioni e del territorio.
 Scrive l’A. (pag. 22): “Nell’idea dell’orto viene ribaltato il disegno urbano e viene interpretato in una chiave nuova il senso del paesaggio. L’agricoltura è sempre stata “altro” rispetto alla città, mentre sarebbe ora di importarla nei meccanismi urbani, perché soprattutto nelle città si giocherà gran parte della scommessa ambientale del futuro e si cercherà un rinnovato rapporto con l’agricoltura e, con esso, il desiderio di un nuovo significato di paesaggio che, più che rispettato, dovrà esser valorizzato”.
 Proprio la responsabilità di governo dei fenomeni di trasformazione del territorio accompagna, inoltre, lo sviluppo dei successivi capitoli tenendo conto della necessità di affrontare i problemi di riassetto urbanistico in base alla qualità dei contesti di vita.
 Del resto, alcuni spunti possano essere tratti proprio dalla premessa laddove si fa riferimento al fatto che l’ambiente sia un “affare di tutti” e al rinvio ad “utopie realizzabili” per promuovere lo sviluppo di una società basata sulle conoscenze e non solo sui consumi.
 Tutto ciò impone coerenza delle azioni e senso di responsabilità. Ecco perché l’attenzione ai temi dell’ambiente e dell’energia può diventare un’occasione di discernimento e di nuova progettualità che investe, prima di tutto, la questione educativa e di partecipazione in seno alle comunità territoriali che “rappresentano il fulcro del cambiamento, perché la loro dimensione è ottimale per un coinvolgimento individuale all’interno di un preciso spazio sociale”, evitando la trappola di una polverizzazione degli interventi: insomma, diversa dallo spontaneismo dei comitati che si limitano a porre delle ragioni di opposizione è la creazione di una rete sociale in quanto connessa direttamente alle potenzialità di un territorio e basata sul dialogo tra ambiente ed economia.
 A guadagnarci sarà ovviamente l’agricoltura, finora offesa da innumerevoli episodi di localizzazione di opere e infrastrutture senza alcuno studio di impatto con la qualità dei luoghi e i contesti paesaggistici.

 

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Titolo: Come uscire dalla società dei consumi Autore: Serge Latouche Edizioni: Bollati Boringhieri Prezzo:  € 16  Pag.: 207 

Discutere intorno alle tesi di Serge Latouche significa provocare, con anticipata premeditazione rispetto alla verifica dei temi trattati, una «rissosa» controversia sulla mancanza di consistenza teorica e scarsa utilità pratica del progetto così detto di decrescita rivolto a trovare un altro mondo possibile, liberato dalle inquietudini e dalle ossessioni dello sviluppo economico.
La lettura dell’ultimo lavoro dell’Autore (Come si esce dalla Società dei Consumi. Corsi e percorsi della decrescita, ed. Bollati Boringhieri, p. 203, prezzo € 16,00) induce, peraltro, se non a seguire fino in fondo le esortazioni e gli ammonimenti rivolti alla “incuria nei confronti del futuro” (pag. 8), di cui siamo complici nella corsa senza limiti del moderno produttivismo e senza alcuna attenzione per l’emergenza ecologica e la giustizia sociale, a riflettere sul nostro modello di vita.
Probabilmente, tra la visione del cittadino medio, “più ansioso del proprio livello di vita che di quello degli oceani” (pag. 38) e la prospettiva catastrofista di alcune voci dell’ecologismo appare più serio il tentativo di imboccare una via di mezzo, quella della sobrietà, sottoponendo ad una più adeguata rivisitazione la serie dei postulati che supportano la fase attuale di una “crescita che supera l’impronta ecologica sostenibile e che, per l’Europa, corrisponde in sostanza al sovra consumo, ovverosia ad un livello di produzione che, su scala globale, supera il livello che permette il soddisfacimento dei bisogni ragionevoli di tutti” (pag. 41).
La decrescita – sottolinea Latousche – non è un termine sexy, vale a dire impegna ad una faticosa attività di rivisitazione del nostro impegno a partire dal prelievo di risorse non rinnovabili, dall’impiego di fonti energetiche, dai meccanismi di produzione dei rifiuti e fino alle modalità di acquisto di beni e servizi una volta assediati dal marketing e dalla pubblicità.
Scendiamo nel campo dell’alimentare e proviamo a valutare se molti di quei cibi presenti sugli scaffali dei supermercati, in assortimenti abbondanti, non inducano a bisogni non giustificati sollecitando pulsioni di acquisto a cui potremmo coscientemente sottrarci.
Più che sull’invito a uscire dall’economia, rendendosi conto dei suoi fallimenti più recenti o ad opporre tenace resistenza al disegno prometeico della scienza con il bilancio impressionante dei rischi che, ormai, dominano le nostre relazioni con l’ambiente e la vita (dal nucleare agli ogm) vale mettere in piena luce la proposta di raccogliere alcune ipotesi alternative: ad esempio, quella di riprodurre la filiera corta, l’agricoltura di prossimità, la coltivazione degli orti. Così, ad esempio, una produzione locale (disponibile a meno di cento chilometri di distanza), stagionale, fresca, tradizionale, agroecologica, può perfettamente sostituire l’offerta commerciale della grande distribuzione, spesso poco scrupolosa nei confronti dei piccoli produttori” (pag. 59).
Anzi, lungo questa via è possibile rintracciare il senso di un’utopia fondata sui valori mediterranei contro quel processo di macdonaldizzazione che rischia di ridurre la complessità della nostra società tradizionale e delle sue manifestazioni più emblematiche lungo un percorso che transita: “dalla percezione del tempo al senso dell’onore, passando per la cucina” (pag. 150).
Chiederci cosa mettiamo in tavola se, dunque, non è sufficiente per assimilarci a veri e propri obiettori della crescita ci rivela già una privilegiata disponibilità a scelte adeguate sul piano degli stili di consumo più attenti alla salute e alla salvaguardia dell’ambiente di vita eliminando, al tempo stesso, fattori di obesità e fonti di pressione non sostenibile sull’habitat.
Probabilmente non potremo consigliarlo ai nostri amici più appassionati di banca, finanza e credito, ma avvicinandoci ai banchi colorati e profumati di un farmer market siamo diventati anche noi seguaci di Latousche!

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Titolo: Mangiare Autore: Paolo Rossi Edizioni: Il Mulino Prezzo:  € 14  Pag.:156

 

“Mangiare. Bisogno, desiderio, ossessione” (Bologna, Il Mulino, 2011, 1-153) è il denso e suggestivo volume che Paolo Rossi dedica alla molteplicità delle metafore alimentari e dei paradossi che, in un ‘epoca di sovrabbondante disponibilità di cibo - al meno dal versante geografico dell’occidente - conseguono a comportamenti e sentimenti legati all’idea della tavola e del cibo. Una volta dimenticati i bollini della tessera annonaria, per tutti noi l’accesso al cibo configura una normale consuetudine del vivere quotidiano, ma può essere anche una forma di piacevole godimento o, invece, costituire motivo di ansia o di rifiuto. Il tema è complesso e coinvolge la natura e la cultura. Sì che, avverte l’Autore, dobbiamo spogliarci della presunzione di operare solo con il rigore e la precisione che appartengono al mondo della matematica, in quanto intorno alle cose davvero importanti per tutti e per ciascuno abbiamo idee confuse e disponiamo di definizioni approssimative. Perché, ad esempio, gli esseri umani che sono dotati di un apparato digerente assolutamente identico, nelle varie aree geografiche, si approvvigionano di alimenti tanto diversi da apparire reciprocamente strani o, perfino, disgustosi? È sicuramente il risultato di tecniche di adattamento all’ambiente, ma soprattutto è il prodotto della cultura: “il cibo non viene solo ingerito. Prima di entrare nella bocca, viene progettato e dettagliatamente pensato” (pag. 31).
Riti, cerimonie e abitudini ci introducono, ancora, nell’immaginario religioso del cibo: dal digiuno come forma di autodisciplina se non di coltivazione di sofferenze, alla rimozione dello spettro della fame e della penuria di cibo. La fame, d’altra parte, può essere considerata anche come forma di protesta e strumento di lotta politica ovvero come i miti e le vicende storiche ( e le stesse cronache) hanno tramandato e ci consegnano, con episodi drammatici, quale esito feroce, folle o tragico di forme di cannibalismo e di olocausto.
Entrato nel presente, all’Autore pare, in ogni caso, che il tema dell’alimentazione sia come esploso e sia divenuto oggetto di una vera e propria ossessione, di volta in volta dei sostenitori della genuinità, degli amanti delle cucine etniche,  dei fautori del biologico e dei cultori del fast food. Siamo d’accordo che questo sarà, nel terzo millennio, uno dei grandi scenari dell’antropologia: non, invece, sul giudizio che, vivendo all’interno di una società che dà uno spazio sempre più ampio al localismo e alle specifiche tradizioni gastronomiche saremmo affetti da un sempre più accentuato primitivismo. Un forma di nostalgia e di elogio di un passato migliore del presente. L’Autore sottopone a critica l’idea - portata all’estremo- che un tempo si mangiava naturale e il cibo era gustoso: in quel tempo, egli dice, era facile rinvenire un legame stretto tra malattie e sottoalimentazione, tra carestie e fame. Sarebbe incauto, pertanto, ricercare il rischio zero a proposito dei cibi tecnologicamente modificati o adottare la precauzione che ci riporterebbe “all’epoca delle scimmie” o, in genere, identificare il naturale con il bene e l’artificiale con il male.
Fatto sta che, per estirpare quella terribile malattia, assai diffusa tra i giovani, di rifiuto del cibo - a cui l’Autore dedica, nelle conclusioni, considerazioni assai incisive - occorre, proprio, tornare ad interpretare quello stile di vita, alternativo, semplice e conviviale, che la campagna ci ha tramandato riequilibrando le necessità del lavoro con la felicità delle feste, tanto da rimuovere solitudine ed egoismo anche verso sé stessi e insegnare la responsabilità di vivere in comunità.

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Titolo: Breve storia dell'abuso edilizio in Italia Autore: Paolo Berdini Editore: Saggine Prezzo:  € 16.50  Pag.:168

Una ricerca ricca di cifre e densa di appunti storici, che sconfinano nell’attualità, quella di Paolo Berdini, ingegnere e ambientalista, intitolata Breve storia dell’abusivismo edilizio in Italia (Ed. Saggine).
Partito dalle origini dell’abusivismo edilizio, il saggio ha attraversato le fasi dello sviluppo dell’Italia del dopoguerra fino alla fase più recente di deregolazione nel “Paese fai-da-te”.
La lettura, depurata di qualche riflessione personale e militante, ci conduce alla scoperta di quel disordine in larga parte irrecuperabile che contrassegna il territorio, ponendoci in guardia dal rischio che nonostante il corredo di vincoli e strumenti di piano, lo Stato possa perdere il controllo delle trasformazioni urbanistiche. Da nord a sud le città risultano lacerate dall’abusivismo e le campagne soffrono per i diffusi episodi di occupazione e cambio di destinazione d’uso.
Certo, se nell’immediato dopoguerra le cause dell’abusivismo potevano trovare tolleranza rispetto al flusso di immigrazione e alla necessità di soddisfare il bisogno reale di case, in seguito, è stata soltanto la rendita speculativa a motivare, senza alcuna plausibile spiegazione, lo sviluppo del fenomeno, complice l’arretratezza della struttura industriale del Paese. Come scrive l’Autore, il trionfo dell’affarismo “non è riconducibile a una predisposizione alla trasgressione del popolo italiano, come si sente dire spesso. È piuttosto la conseguenza della latitanza delle amministrazioni dello Stato nell’esercizio del proprio ruolo di indirizzo e direzione” (pag. 33).
Il risultato del boicottaggio reiterato delle leggi urbanistiche e del paesaggio attraverso i tre condoni (1985, 1994 e 2003) è veramente ingombrante: tra piccoli abusi edilizi, realizzazioni di intere lottizzazioni ed aggressioni dei luoghi di vacanza sono stati compiuti 4.600.000 abusi, più di 74.000 ogni anno, 203 al giorno. Manca, inoltre, una reale corrispondenza tra le mappe catastali e le foto satellitari, perché nei luoghi dove la cultura dell’illegalità è stata più radicata i responsabili degli abusi non hanno neppure presentato una domanda di condono. Non sono stati risparmiati neppure parchi archeologici, siti storici, coste e aree vulcaniche e, in tutti gli episodi raccontati è stata sempre risolta in disprezzo della legge l’alternativa secondo cui “è meglio un’opera che produce ricchezza piuttosto che l’astratto rispetto di regole” (pag. 98).
Oggi, però, il Paese “frana” a causa dell’abusivismo edilizio - si contano 37.000 movimenti franosi all’anno - oltre al fatto che è difficile anche quantificare le somme dovute alla Pubblica Amministrazione per gli oneri di urbanizzazione. È richiesto, dunque, un cambiamento, prima di tutto nella cultura e, poi, nelle soluzioni economiche: “bellezza” e “giustizia” non sono ingredienti da separare a partire dallo sviluppo di un’agricoltura di qualità, ricca dei valori del territorio, ambientalmente coerente alla domanda di servizi del tempo libero e del turismo e capace di intraprendere buone pratiche per soddisfare gli interessi dei cittadini consumatori a mangiare prodotti tradizionali a Km0.

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Titolo: Non possiamo tacere. Le parole e la bellezza per vincere la mafia - Autore: Giancarlo Bregantini - Edizioni: Piemme - Pag.: 193 - Prezzo: € 14,50

LA BELLEZZA COME METODO ANTIMAFIA

Decisamente coinvolgente è il volume che Giancarlo Bregantini (“Non possiamo tacere. Le parole e la bellezza per vincere la mafia”, edizioni Piemme, euro 14,50) ha presentato a testimonianza della sua esperienza pastorale e di Vescovo di una diocesi contrassegnata da gravi fenomeni di infiltrazioni mafiose che deprimono qualsiasi volontà di sano sviluppo dell’economia e di riscatto sociale delle comunità. Bregantini, appena arrivato a Locri rifiuta la scorta, pure necessaria per la tutela della sua persona a fronte delle forti prese di posizione contro i clan locali e nonostante le successive intimidazioni passeggia per le strade, conversa con la gente: “al sud i fatti valgono molto di più delle parole. Le forme, i modi, lo stile nell’approccio sono veicolo di concetti, di messaggi” (p. 26). È, dunque, dall’insegnamento che trae dalla familiarità con un ambiente sfregiato da violenze e abbrutito da desolazione, opaco nelle coscienze e nel senso comune, che l’Autore traduce risposte assai concrete nel contrasto alle iniziative criminali: “bisogna svuotare la mafia di significato e il modo migliore per farlo è puntare sulla positività. La migliore forma di antimafia è il gusto del bello, del buono, del vero, mentre i membri delle cosche puntano sulla negatività, sulla paura, sulla menzogna. La mafia ha orrore della bellezza” (p.27-28). “È come se la bruttezza dei luoghi esprimesse tragicamente quel desiderio di violazione che c’è nel cuore del mafioso” (p.29) - scrive ancora Bregantini - tanto da richiamarci tutti ad un impegno educativo e di partecipazione ad un contesto di vita sociale, in sintonia con la natura e il paesaggio. Le denunce sono necessarie ma non sufficienti, occorre un progetto più complessivo che coinvolga genitori, insegnanti, educatori al fine di capovolgere il destino altrimenti ineluttabile che grava in modo insidioso su tutti: “i magistrati, gli imprenditori, gli intellettuali e anche i preti” (p. 49). Solo costruendo reti di solidarietà e rinunciando alle gesta di eroi isolati, ricucendo, invece, una responsabilità del dialogo e dell’esempio si può riuscire a far arretrare la mafia, magari con l’organizzazione del lavoro dei giovani in cooperative, con il contributo e il sostegno dell’intera comunità e tramite la più efficace coerenza dei cristiani, perché non ci sia contraddizione tra le preghiere della domenica e le scelte del lunedì. Dunque, annunciare, denunciare e rinunciare costituisce la trilogia del riscatto contro l’abisso del male che l’autore ci consegna chiamandoci, nel quotidiano ad un impegno di consapevolezza collettiva e di rigenerazione civica.
L’argine più consistente a difesa dei reati di mafia non è sicuramente rappresentato dalle misure di polizia quando a rischio è la stessa tenuta relazionale ed emotiva di una comunità; in questo caso occorre intervenire  preventivamente, con capacità di programmazione, come nel caso in cui sia una collina a franare: bisogna piantare gli alberi che rendono compatto il terreno e “gli alberi che impediscono il franare di una società civile sono le coscienze, innaffiate con l’autostima e coltivate su un terreno reso fertile dall’educazione, dai progetti, dalla consapevolezza di una rete di relazioni basate sull’amore, sul desiderio di bellezza e su parole che danno vita” (p. 114).

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Titolo: Controvento. Il tesoro che il Sud non sa di avere.       Autore: Antonello Caporale - Edizioni: Mondadori - Pag.: 119 - Prezzo: € 17

Vento e malaffare: una storia del sud

Attraverso la descrizione di fatti personali e l’indagine di luoghi lontani dai riflettori della notorietà Antonello Caporale (Controvento. Il tesoro che il Sud non sa di avere) racconta lo sviluppo delle energie rinnovabili legate al vento, mettendo a fuoco storie di ordinario malaffare ma anche di impegno concreto e di richiamo alla responsabilità. Antonio, allevatore di Ripabottoni e Alessia, viticoltrice di Mareggia, affrontano gli stessi problemi di speculazione e di corruzione che hanno caratterizzato la diffusione dell’eolico in Molise e in Puglia dove geometri e sindaci hanno contratto e diffuso un virus destinato a compromettere la qualità del territorio e le stesse possibilità di sviluppo: “avete presente il morbillo? Ecco, siamo ancora nell’incubazione della malattia. Alcuni puntini rossi si notano nitidamente, ma ne sbucheranno altri mille e mille e mille. Finché la pelle sarà tutta punteggiata da questi monticelli. L’Italia ha il morbillo e quando sarà esploso in tutta la sua virulenza faremo una preghiera a Gesù e Maria, Madonnina bella!” (p. 49).

Cos’è il paesaggio - fa rimbalzare nelle argomentazioni dei suoi semplici protagonisti l’A. - “Vattelapesca. Siamo moderni e dobbiamo installare i pannelli. Quanto più possibile, e nel minor tempo possibile. Anche al posto delle ciliegie e dei fichi d’India. Anche al posto dei vitigni...” (p. 76)

Anche a Girifalco un giovane e brillante professore universitario indugia intorno ai concetti della green economy: “Non conosciamo il valore del paesaggio, questa è la verità. Tu hai mai visto volare un nibbio reale, per esempio?...Ma un nibbio quanto vale? E uno spuntone di roccia, una gola tra valli? E la cicogna nera? E la spiaggia libera dalle camere d’albergo? Vattelapesca. Ciò che non è convertibile in immediati e sonanti quattrini è per noi inservibile, persino superfluo. È un lusso, anzi, uno spreco.” (p. 110-111).

La ricchezza, invece, viene dalla costruzione di parchi eolici, non importa se disonesti sviluppatori e conniventi amministratori falsificano atti o ricorrano a soprusi e minacce.

Da gran tempo, da quando sono stati introdotti gli incentivi volti a favorire lo sviluppo delle energie rinnovabili, e in particolare quelle da fonte eolica, ci siamo trovati di fronte a una serie frammentata di aggressioni al territorio agricolo, in particolare nelle regioni del Sud e non perché siano più ventose, ma in quanto più facile resta la corrosione del tessuto politico-amministrativo con il risultato di ottenere permessi e autorizzazioni in spregio alla salvaguardia di interessi collettivi.

Vittima di questo processo è il territorio agricolo: con la descritta arroganza e prepotenza le imprese, che hanno la propria ragione sociale anonima ma una rete di emissari o sviluppatori dei progetti ben conosciuti e abili nella diplomazia con i poteri locali, occupano questo spazio di mercato garantito senza monitorare eventuali impatti o conseguenze che l’economia locale possa subire.

L’agricoltore cede il terreno per una iniziativa imprenditoriale di terzi e il territorio perde ogni possibilità di effettivo sviluppo autocentrato. Nel momento in cui si instaurano contratti di filiera per le biomasse, per lo sfruttamento del legname, il recupero e la valorizzazione dei residui, l’imprenditore con la sua struttura aziendale è coinvolto, cioè, partecipa ad un progetto di sviluppo energetico, diventa attore del territorio. Invece, impianti eolici o pannelli solari a terra sono del tutto estranei ad un modello di compartecipazione nello sviluppo delle energie ma sono soltanto gli incentivi a guidare gli industriali nell’investimento nel settore.

 

Più di tutti, ad essere interessati all’eolico sono, però, i Sindaci perché in alcune aree interne probabilmente l’energia viene vista come uno degli ultimi vagoni per lo sviluppo territoriale. Sindaci in buona fede pensano che questa sia un’occasione utile per il loro comune: “Ti faccio mettere quante pale vuoi, se mi fai tappare i buchi delle strade...! (86), esclama il Sindaco di Falerno [che si affaccia sulla splendida piana di Lamezia Terme] aggiungendo: “E poi le pale sono anche belle...”. Peccato che in quelle aree si debba parlare di: “energia pulita, ma mani piuttosto sporche” (115): avversario insuperabile è la criminalità organizzata e si contano, alla fine, più inchieste giudiziarie che pale che girano. Emblematico è il racconto di un magistrato calabrese: “Il ruolo della ‘ndrangheta nella realizzazione dei “parchi” è presente in ogni fase. Si infiltra già nel progetto. Chi muove la terra per fare la strada che porta al “parco” eolico? Su quale terreno puoi costruire se non in quello appartenente a qualche cosca?” (116). E l’agricoltura è vittima e ostaggio.

 

 

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Titolo: L'etica in un mondo di consumatori - Autore: Zygmunt Bauman - Editore: Economica Laterza - Pag.: 233 - Prezzo: € 9,50

 

L’ultima fatica di Zygmunt Bauman (“L’etica in un mondo di consumatori”, Ed. Economica Laterza, p. 233, € 9.50) risulta forse complessa e anche, in alcuni passaggi, di difficile lettura; tuttavia, vale la pena di approfondirne la lettura per tentare di cogliere il senso e poter trovare modi nuovi e adeguati di pensare la nostra vita, facendo leva su “ciò che oggi, al calar del sole, riteniamo non venga rigettato all’alba di domani” (VII).
Potremmo, forse, partire dalle considerazioni finali dell’Autore per capire a che punto siamo arrivati nella visione di un mondo dilaniato da conflitti e decidere tra la scelta di arroccamento militare e la logica della collaborazione istituzionale: agli interventi di prevenzione per ristabilire la sicurezza degli Stati si oppone la responsabilità di rendere il pianeta ospitale per valori e modalità di esistenza e solidarietà.
Scelte difficili: “ci troviamo su un pendio che sale verso un valico di montagna che non abbiamo mai attraversato prima, e non abbiamo alcuna idea della veduta che ci si schiuderà davanti una volta arrivati in cima ... una cosa di cui possiamo essere sicuri, però, è che non possiamo fermarci a riposare a lungo qui...” (222).
Nel mondo liquido-moderno, la vita del consumatore è fatta di rapido apprendimento e di pronta dimenticanza con un profondo paradosso: che il consumatore soddisfatto e felice sarebbe il pericolo maggiore per il mercato, perché quello che tiene in piedi l’economia (e il PIL) è il ciclo compra usa e getta.
Ecco perché l’economia conduce all’eccesso e allo spreco anche a tavola.
L’antidoto è quello di tornare a dare valore ai prodotti e perseguire il sentimento di essere felici per aver soddisfatto i propri bisogni fino a rimuovere le illusioni del mercato. Così, oggi, la strada dal negozio al cassonetto compiuta dai rifiuti appare  veloce e facile; mentre, per quanto riguarda gli alimenti, occorre, in particolare, individuare e ricostruire il percorso dal campo alla tavola in termini di funzionalità e di collegamento stabile e duraturo tra lavoro degli agricoltori e concrete aspettative dei consumatori in termini di qualità, ambiente e salute.
Tutto ciò che possiamo apprendere e memorizzare per conservare, riutilizzare e adattare alla nostra dieta gli alimenti nella prospettiva del bisogno, dando, cioè, ad essi valore in quanto tali ed evitando gli sprechi, diventa, però, nemico del funzionamento del mercato globalizzato, così come appare oggi congegnato.
Una responsabilità pesante è affidata, dunque, ai singoli cittadini proprio a fronte della scarsità dei punti di orientamento attendibili in una mappa a dimensione planetaria, avendo consapevolezza che il calcolo delle nostre scelte si riverbera direttamente sul modo di vivere degli altri soggetti con cui condividiamo il pianeta, posto che “nessuno di noi può più cercare e trovare riparo individualmente dalle tempeste che nascono in un punto qualsiasi del pianeta” (29).
Sono, dunque, richieste doti di equilibrio e di sobrietà nelle occasioni di consumo riconoscendo come siano, anzi, ridotti i pregi della libertà di scelta rispetto alla ricerca di sicurezza per lo smarrimento degli obiettivi di una crescita non sostenibile (dalla mucca pazza in poi).
Fatto sta che nel decidere la nostra vita non si perseguono ideali durevoli e persistenti all’usura ma si è circondati dall’effimero quotidiano. Si parla continuamente di flessibilità con l’abilità di cambiare strada e sbarazzarsi delle precedenti esperienze: almeno a tavola potremmo, tuttavia, recuperare la conoscenza della tradizione contro il ritmo sconcertante delle offerte del  momento, insieme all’abilità del cucinare che, al di là dell’occasione di consumo immediato, ci porta ad apprendere le differenze tra i prodotti e ad avvertire la rilevanza del gusto, con soddisfazione.
Finalmente un consumatore che acquisti in modo consapevole selezionando il canale di distribuzione e, magari, servendosi delle botteghe degli agricoltori, non è più un emarginato sociale.

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Titolo: Ricette di famiglia- Autore: Roberto Barbolini - Editore: Garzanti libri (coll. Narratori moderni) - Pag.: 160 - Prezzo: € 16

Storie d’Italia

Gli attuali ricettari, che fanno la fortuna di Autori desiderosi di soddisfare la più recente attenzione del pubblico per pietanze, piatti e ingredienti firmati e trascritti come si potrebbero leggere in un manuale tecnico, prestano poca attenzione all’aspetto sociale delle scelte alimentari. Roberto Barbolini con Ricette in famiglia (Garzanti, pagg. 157, prezzo € 16 ) intraprende, invece, un racconto coinvolgente e partecipato sulla dimensione sociale del cibo in quanto capace di evocare una qualità costituita, prima di tutto, dai valori familiari e domestici della mensa. Se il gusto è, dunque, relegato in un ambito puramente fisiologico, decisamente importante è la reinvenzione degli affetti e delle identità attraverso saperi orali e gestuali della cucina di casa dove si ritrovano e si riconoscono risorse e valori affettivi che rendono l’individuo partecipe di una comunità e della terra che lo circonda: il vero antidoto ai cambiamenti portati dalla modernità.
Dal flan di cervella, alla lepre arrosto, le singole ricette sono, di volta in volta, combinate con le trovate pubblicitarie (l’idrolitina, la prima acqua frizzante fatta con le bustine) o con il ricordo della brillantina Linetti e presentate insieme alle vicende televisive del mago Zurlì, o al profilo del “tragattino” di paese (quello che s’arrangia). Scorrono, così, veloci le pagine che parlano di un secolo che si chiude su un piatto di patatine all’happy hour trangugiato in piazza o in una degustazione di sushi al secondo la tendenza del momento.
Dall’atmosfera della dimora di campagna fino a quella del bilocale metropolitano il racconto coinvolge un carosello di personaggi: una mamma sempre ai fornelli, un babbo dall’olfatto sopraffino, l’amico che sposa solo donne giapponesi, il cugino che vuole globalizzare le tigelle (crescentine) in un fast food. Tutto inizia con un taccuino tramandato dalla nonna Armida alla figlia. Un moleschino a quadretti scritto in bella calligrafia che riporta segreti e appunti per la preparazione di pietanze tipiche dell’Appennino.
Un elogio della semplicità, come nel caso del “lattemiele sull’africano” un budino particolare capace di incantare anche una piccola bimba che scopre gli appunti della bisnonna e corre dai suoi genitori gridando che da grande vuol “fare la cucinaia”.
I capitoli sono ricchi di spunti divertenti che invitano comunque a pensare come la produzione, il mercato e la cultura assumono caratteri che inevitabilmente tendono ad eliminare diversità e specificità che, invece, arricchiscono i sapori locali o di comunità. È il caso dell’avventura del Maliverni che pianta tutto per andare in India a promuovere le crescentine per rispondere alla proliferazione in Italia della salsa chutney e pollo tandoori, fantasticando sulla piadina paragonata al roti o al chapati indiano.
Ed è sempre il racconto a dare la risposta giusta. Per fare le tigelle (particolare pane modenese che prende il nome dalle piastre fatte con la terra di creta per la cottura nel camino) bastano acqua, farina e sale al massimo un po’ di lievito di birra o del latte per ammorbidirla. Ma una nota ben sottolineata dalla saggia autrice del block notes dice che il suo quid rimane il tocco celtico del lardo tritato con aglio e rosmarino.
Il piacere indimenticabile di una torta fatta in casa è il passaggio fondamentale per saper gustare anche il Kheer di Dehli. Perché fondamentale è la radice del gusto, quella legata al territorio d’origine: allora sì che si può pensare di diventare dei gourmet professionisti in grado di avventurarsi in un safari delle cucine globali senza perdere la bussola per l’orientamento.
Un po’ come far la spesa in un mercato di Campagna Amica e cucinare seguendo i dettami delle ricette di casa, evocando ciascuno propri ricordi e vicende conviviali perché – e sarebbe difficile smentire – qualsiasi ricordo si lega ad un sapore tradizionale ed al gusto originale che solo prodotti “autentici” sono in grado di riproporre.

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